Festival di Venezia : c’è anche un tocco di pallamano

Lo avreste mai immaginato? La Pallamano al Festival del Cinema di Venezia! Vi chiederete come sia possibile e cosa c’entri il nostro amato sport con una manifestazione così prestigiosa.

Forse è una domanda che dovremmo rivolgere a Uberto Pasolini, regista del film in questione, intitolato “Machan“.

La pellicola, ambientata a Colombo, capitale dello Sri Lanka, narra del desiderio di due giovani di emigrare in Germania, mediante l’ottenimento di un visto, fino a quel momento impossibile da conseguire.

I due però hanno un’idea geniale : fondano una squadra di pallamano, sport pressochè sconosciuto nel loro paese, spacciandosi così per la Nazionale di Pallamano dello Sri Lanka, grazie alla quale riusciranno a raggiungere l’inarrivabile Germania, segnandole anche una rete.

PallamanoItalia pubblica, di seguito, un’intervista al regista Uberto Pasolini, tratta dal sito internet www.primissima.it :

Machan di Uberto Pasolini, presentato alle Giornate degli Autori, segna l’esordio alla regia del produttore di pellicole come Full Monty, I Vestiti nuovi dell’Imperatore e Palookaville alla regia. “Ma non intendo intraprendere un nuovo tipo di lavoro.” Precisa Pasolini, un gentleman carismatico e simpaticissimo “Io appartengo per formazione a quel mondo anglosassone dove sono i produttori a scegliere le storie per i film che vogliono fare, e sono loro, poi a chiamare un regista per dirigerle. In America e nel Regno Unito sono, in genere, i produttori il motore trainante di un film. In Italia, invece, il produttore è una sorta di ‘facilitatore’ del sogno di un regista o aspirante tale. La realtà è che per Machan non me la sentivo di affidare il progetto a qualcun altro dopo averci lavorato tanto a lungo. Però, la mia carriera è quella di un produttore molto presente, forse, “troppo”, ma io sono e resto un produttore.”

Quanto è “italiano” questo film?
Molto, perché i miei riferimenti sono sempre quelli della commedia all’italiana di Mario Monicelli: Palokaville era il mio omaggio ai Soliti Ignoti. Machan, però, resta una pellicola recitata in cingalese che affronta una realtà del terzo mondo, con una dinamica, uno humour e delle gag molto occidentali, perché è il film è diretto agli spettatori europei e americani.

Come è nato questo progetto?
Quando sono venuto a conoscenza della storia di un gruppo di cingalesi che aveva fatto finta di essere la nazionale di pallamano dello Sri Lanka, un paese dove nessuno sa nemmeno cosa sia questo sport, per partecipare ad un torneo in Germania e così immigrare clandestinamente in Europa, ho pensato che ne se ne poteva trarre un film. Mi sono, infatti, innamorato dell’idea di affrontare un tema serio come quello dell’immigrazione, attraverso una chiave di commedia e un punto di vista umoristico. La cosa più accattivante e divertente derivava dal fatto che non si stesse parlando di una squadra ‘vera’, bensì di una ‘falsa’. Il fatto che non esistesse una nazionale di pallamano dello Sri Lanka è una celebrazione del talento di queste persone nell’inventarsi tutto: una squadra, una divisa, le foto ufficiali…tutto. Anche io, del resto, per girare questo film mi sono documentato sulla pallamano che non conoscevo.

La vita imita l’arte?
In un certo senso. Ho scoperto la pallamano così come ho conosciuto lo Sri Lanka per fare questo film.

L’improvvisarsi per quelli che non si è, sembra essere un tema ricorrente nei suoi film…
Più che l’improvvisazione, quello che mi attrae è la speranza dell’uomo sognatore e poco razionale che ‘spera’, prova e finge di essere quello che non è e che, forse, non potrà mai diventare. Mi attrae la capacità di sognare e di non darsi dei limiti razionali. In questo senso i miei film sono tutti molto vicini nello spirito.Il perdente in partenza che prova a riportare piccole o grande vittorie rappresenta per me un concetto di grande fascino.

Il suo cinema riesce ad essere sofisticato e popolare, drammatico e divertente al tempo stesso. Dove nasce il punto di equilibrio?
E’ molto difficile: non ho la cultura per fare film più cerebrali e filosoficamente più complessi. Giro un cinema per me stesso con un approccio ai problemi al mio livello. Non potrei mai concepire film come quelli di Mikael Haneke, perché non credo di avere la sua levatura intellettuale. E’una questione di educazione e di scuola. Io mi dedico al lavoro sulle storie che piacciono a me e che io mi sento in grado di sviluppare e raccontare. Il mio film di riferimento per me resta sempre I soliti ignoti girato nel 1957. Lo stesso anno in cui sono nato io.

Che gioco ruolo lo humour nel suo cinema?
Io amo molto l’umorismo quando è trattato in maniera naturalistica. Non capisco lo humour quando è trattato in maniera farsesca ed eccessiva. Ci sono storie e problematiche come immigrazione e disoccupazione che sono più facilmente condivisibili in toni non melodrammatici e leggeri. Il cinema che amo deriva non da dialoghi buffi con una battuta dopo l’altra, ma – soprattutto – dalle situazioni.

Un umorismo ‘britannico’…
Non so dire: forse sì. Io, per esempio, ho sempre pensato che Full Monty doveva essere una pellicola girata da un Ken Loach ‘ubriaco’. Per Machan è la stessa cosa: nonostante la drammaticità degli argomenti trattati, il film è molto comico, così come è la vita.

I suoi film sono sempre corali…
E’ vero e sinceramente anche qui non so dire perché. Le idee sono ‘corali’ e io le seguo nonostante i film corali siano i più difficili da tenere insieme. Non tanto per quello che riguarda la scrittura, bensì per la gestione dei diversi personaggi che devono essere seguiti senza che lo spettatore si stufi. Mi sono anche un po’ stancato di girare pellicole con protagonisti solo uomini e qualche donna. Mi piacerebbe fare un bel cast con quindici ragazze splendide. Sarebbe fantastico!

di Matteo Aldamonte

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